Apokolokyntosis: la crudele vendetta di Seneca

apokolokyntosis

Apokolokyntosis o deificazione di uno zuccone: la crudele vendetta di Seneca

L’Apokolokyntosis, satira menippea composta da un’alternanza di versi e prosa, deriva il suo stravagante titolo chiaramente dal greco ed è la contrazione dei termini kolokyntha (κολόκυνθα), che significa zucca, e apotheose (αποθέωση), che è il processo di deificazione post mortem. La traduzione di questa singolare crasi sarebbe “zucchificazione” ma non riuscirebbe a rendere a pieno la valenza satirica e dissacrante del termine: si è quindi più propensi a tradurlo come “deificazione di una zucca o zuccone” con un chiaro riferimento alla stupidità e alla vanagloria spesso attribuita all’imperatore Claudio.

L’accanimento satirico a cui è sottoposto Claudio non si comprende a pieno se non si conoscono i retroscena del rapporto tra Seneca e l’imperatore della casa Giulio-Claudia. Le ostilità sorte tra i due sono da attribuire sicuramente alle abili quanto amorali macchinazioni di Messalina, la giovanissima moglie di Claudio. La donna, una volta salita al trono imperiale nel 41 d.C. assieme all’anziano marito, dopo l’omicidio di Caligola, provvede a vendicare la morte di quest’ultimo: a cadere vittima della vendetta di Messalina è anche Seneca, probabilmente amante di Giulia Lavilla, sorella di Caligola. I due subiscono l’esilio: Giulia nell’isola di Ventotene, dove verrà poi successivamente raggiunta ed eliminata dai sicari di Messalina; Seneca, invece, sarà spedito nella selvaggia e desolata Corsica, dove sconterà anni di esilio dal quale solo la nuova moglie di Claudio, Agrippina, lo richiamerà, restituendogli la libertà, riabilitando la sua fama e affidandogli l’educazione del figlio Nerone.

Alla luce dei complicati rapporti tra i due è più facile comprendere la violenza dell’Apokolokyntosis, che suona quindi come una vendetta a lungo meditata dal filosofo nei confronti di un imperatore che lo ha condannato all’esilio, alla solitudine, alla lontananza dagli affari e dalle vicende della capitale. E la piega che prenderà la satira è chiara fin dall’esordio in cui Seneca annuncia i suoi propositi:

“I fatti che si svolsero nei cieli il tredici ottobre dell’anno 54 primo di un’era di beatitudine, ecco quanto voglio tramandare alla storia.”

Seneca pur professando una certa imparzialità nella narrazione dei fatti smaschera fin da subito la sua feroce ostilità e la gioia per la riacquisita libertà che coincide con la morte, sopraggiunta il 13 Ottobre del 54 d.C., di colui che aveva confermato la verità del proverbio: “o si nasce re o si nasce cretino”. La satira comincia con un divertente botta e risposta tra Mercurio e Cloto, una delle tre Parche, sull’esigenza di “staccare la spina” all’ormai anziano e agonizzante imperatore: dopo un riferimento acidamente polemico alla scelta di Claudio di allargare la cittadinanza romana a frotte di provinciali, Cloto tronca di netto il filo della sua inutile esistenza. La descrizione del trapasso ha dell’esilarante:

“L’ultima frase che di lui si udì nel mondo, dopo che ebbe lasciato partire un suono più forte del solito da quella parte con la quale si esprimeva con maggior facilità, fu questa:”Povero me, forse me la son fatta addosso”. Se l’avesse fatta, non lo so; certo è che egli ha sempre scacazzato dappertutto.”

Claudio, ormai morto, ascende al cielo: lo ritroviamo difronte a Giove, zoppo e balbuziente, nel tentativo di far presente agli dei la sua richiesta di deificazione. Ma la sua lingua risulta incomprensibile anche ad un uomo di mondo come Ercole. Viene, quindi, indetta un’assemblea che si esprima sulle richieste avanzate da Claudio. Chi sembra più indignato di tutti dalle assurde pretese dell’imperatore è proprio il divo Augusto, suo progenitore:

“è mio avviso che si proceda contro di lui severamente, e non gli si dia facoltà di esser giudicato, e sia anzi tratto fuori al più presto, e esca dai cieli entro trenta giorni, dall’Olimpo entro tre giorni”. Questa proposta fu approvata “per divisione”. Senza indugio il Cillenio lo afferra per il collo fino a torcerglielo e lo trascina agli inferi. “Donde, dicono, non tornò nessuno.”

Ma le umiliazioni per Claudio non sono finite. Nella parte finale dell’Apokolokyntosis, Claudio, disceso negli inferi, dopo essere passato sulla terra nel bel mezzo del suo funerale, l’imperatore si trova difronte le facce nemiche di tutti quegli amici che aveva mandato a morte, pronti a chiedere finalmente vendetta. Il processo subito da Claudio è rapido e sommario e la sentenza lapidaria: “Abbiasi pan per focaccia; e questa sia giusta sentenza”. Claudio, per una geniale legge del contrappasso, sarà consegnato come schiavo a Cesare, che a sua volta lo metterà al servizio del suo liberto Menandro.

 

Immagine: https://www.sololibri.net/seneca-vita-opere-pensiero-frasi-aforismi.html

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