CPR (Centri di permanenza per il rimpatrio): la morte fatta luogo

CPR (Centri di permanenza per il rimpatrio): la morte fatta luogo

Un autoritratto stilizzato e qualche riga in francese: questo il testamento di Ousmane Sylla, di soli 22 anni ma con le spalle cariche di speranza e determinazione, la stessa che lo ha però condotto a compiere l’estremo gesto, arresosi ai soprusi dello Stato italiano. Per comprendere il fattore scatenante del suicidio di Ousmane, occorre partire dalla condizione giuridica dei migranti extracomunitari in arrivo in Italia, e capire quando e a che scopo furono installati i Centri di permanenza per il rimpatrio (CPR), luoghi che violano dozzine di normative nazionali e internazionali sui diritti umani.

Situazione dei migranti in Italia: legge Bossi-Fini

Il percorso giuridico di un migrante sul suolo italiano inizia con la Bossi-Fini, che altro non è che il completamento di una legge preesistente, la Turco-Napolitano, che disciplinava la materia dell’immigrazione in Italia per poi essere abolita nel 2002 e cedere il posto alla suddetta. Queste nuove disposizioni non fanno che aggravare ulteriormente una situazione già di per sé critica per quel che concerne i diritti dell’immigrato, raddoppiando, ad esempio, i giorni di detenzione nei CPR da 30 a 60 (che oggi arrivano invece a 90 o addirittura 120 in casi eccezionali). La Bossi-Fini si basa inoltre su un legame molto forte tra contratto di lavoro e permesso di soggiorno che ostacola ancor di più l’acquisizione dei pieni diritti del migrante. Amnesty International ha fatto altresì notare come la legge violi il principio di non-refoulement, per cui non si potrebbe espellere forzatamente i migranti provenienti da paesi che vivono gravi emergenze umanitarie e ignorano i diritti civili, in primis la Libia (dove sono state rispedite 1425 persone tra gennaio e ottobre 2005) o il Sudan, colpito l’anno passato dal terzo golpe e da una guerra civile tutt’ora in corso.

Ma cosa sono i CPR?

L’orrendo e disumano meccanismo che si cela dietro i rimpatri forzati ha un nome: centri di permanenza per i rimpatri. Si tratta di strutture di detenzione amministrativa in cui sono trattenute persone non comunitarie prive della documentazione regolare di soggiorno, o che presentano già un ordine di espulsione. A dire il vero, i CPR esistono sin dalla Turco-Napolitano, ma l’odierna nomenclatura risale al 2017. Oggigiorno i centri sono disseminati da nord a sud, e se ne contano dieci attivi nelle seguenti città: Milano, Torino, Gorizia, Roma (nella frazione di Ponte Galeria, il CPR di Ousmane), Potenza, Bari, Trapani, Caltanissetta, Brindisi, Nuoro. La premier Giorgia Meloni prevede di stanziare 19 milioni di euro per garantire la presenza di almeno un CPR per regione, oltre che di importare il modello in Albania, dove i controlli sono ancora più precari che in Italia.

Criticità dei centri

I CPR sono un fallimento già in partenza, data l’assenza di accordi bilaterali con molti dei paesi di provenienza del migrante. Quello di Ponte Galeria è noto per essere uno dei più problematici: le stanze sono estremamente sporche, i materassi buttati sul pavimento, l’acqua calda risulta assente e c’è un solo telefono per una capienza prevista di 125 persone nel reparto maschile. A detta di Ilaria Cucchi, le persone lì detenute sembrano polli in allevamento intensivo, con la differenza che soffrono la fame e non ingrassano: una dichiarazione che fa venire la pelle d’oca. I CPR rappresentano dei buchi neri anche per l’accesso al diritto alla salute sancito dall’Art. 32 della Costituzione: tenendo presenti i principi fondamentali dell’ordinamento e della deontologia professionale medica, nessuno può essere considerato idoneo ad esservi rinchiuso. Il 51% dei farmaci adoperati è costituito da psicofarmaci: nello specifico, per Ponte Galeria si parla dell’acquisto, nell’arco di cinque anni, di 154500 compresse di buscopan per 4200 persone transitate, una media di 36 pastiglie quando un ciclo normale ne prevede 15. Le persone rinchiuse nei CPR sono state descritte come talmente sedate da sembrare degli zombie.

Per concludere, il caso di Ousmane non è stato il primo né sarà l’ultimo, se continueremo a consentire l’esistenza di un simile abominio.  A oggi si contano 40 morti dall’istituzione dei CPR, e ciò che più lascia l’amaro in bocca è stato vedere come le principali testate, dopo il suicidio di Ousmane, piuttosto che spendere qualche parola per condannare i centri, abbiano fatto passare le proteste che ne sono conseguite come attacchi ingiustificati rivolti alle autorità (che nei CPR la fanno da padroni) da parte di migranti selvaggi, puntando i riflettori sulla macchina della polizia che andava a fuoco e i danni apportati ai centri, piuttosto che sulle condizioni disumane in cui i migranti sono costretti a vivere. Queste rivolte non sono altro che il grido di una battaglia anestetizzata per tanto, troppo tempo. Ma la rivoluzione deve pur sempre cominciare da qualche parte.

Fonte immagine: Wikimedia Commons (foto di Sara Prestianni)

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