7 poesie sulla Shoah: per non dimenticare

poesie sulla shoah

Ogni anno cade il 27 gennaio la Giornata della Memoria, dedicata al ricordo delle vittime dell’Olocausto, affinché la barbarie e l’odio non abbiano la meglio sull’umanità e la solidarietà, perché soltanto la memoria -dovere morale e civile- di ciò che è stato e non dovrà ripetersi potrà impedirlo. In questo giorno del 1945 le truppe dell’Armata Rossa liberarono il campo di concentramento di Auschwitz, rivelando al mondo l’orrore di ciò che lì accadeva e che condusse a morte oltre 15 milioni di persone tra uomini, donne e bambini, tra ebrei, dissidenti politici, disabili, rom e omosessuali.
A ricordarci ciò che è stato non sono soltanto i documentari ed i saggi, ma anche il cinema e la letteratura: sono moltissime le opere cinematografiche, i romanzi, e le poesie sul tema, da Primo Levi ad Anne Frank fino a titoli meno noti ma non per questo meno significativi. Leggiamo oggi alcune poesie sulla Shoah, per non dimenticare.

“La domanda: Ditemi dove era Dio, ad Auschwitz. La risposta: E l’uomo dov’era?” (William Clarke Styron)

4 (+3) toccanti poesie sulla Shoah

Se questo è un uomo, Primo Levi

Voi che vivete sicuri
nelle vostre tiepide case,
voi che trovate tornando a sera
il cibo caldo e visi amici:
Considerate se questo è un uomo
che lavora nel fango
che non conosce pace
che lotta per mezzo pane
che muore per un si o per un no.
Considerate se questa è una donna,
senza capelli e senza nome
senza più forza di ricordare
vuoti gli occhi e freddo il grembo
come una rana d’inverno.
Meditate che questo è stato:
vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
stando in casa andando per via,
coricandovi, alzandovi.
Ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
la malattia vi impedisca,
i vostri nati torcano il viso da voi.

Una rassegna delle più note e toccanti poesie sulla Shoah non può che iniziare con la poesia introduttiva al crudo e straziante, forte primo romanzo di Primo Levi Se questo è un uomo (1947), un uomo che, avendo vissuto in prima persona l’esperienza del lager senza esserne mai uscito davvero, pur essendo tra i salvati, si chiede fino a che punto possa spegnersi nell’uomo l’umanità e sonda con estrema lucidità l’alienazione ed il progressivo imbarbarimento sia dei sommersi che dei salvati all’interno del lager. A lui dobbiamo l’invito costante a ricordare, perché “se comprendere è impossibile, conoscere è necessario“: ricordare le indicibili (eppure dette, una per una, in questo romanzo) atrocità di cui l’uomo si è macchiato contro l’uomo, contro il concetto stesso di umanità, perdendo ogni contatto con la stessa. Ricordare che, se ciò è accaduto, potrebbe ripetersi qualora noi decidessimo di abbassare la guardia. Un invito a stare all’erta, affinché ciò che è stato non possa ripetersi.

Un paio di scarpette rosse, Joyce Lussu

C’è un paio di scarpette rosse
numero ventiquattro
quasi nuove:
sulla suola interna si vede ancora la marca di fabbrica
“Schulze Monaco”.
C’è un paio di scarpette rosse
in cima a un mucchio di scarpette infantili
a Buckenwald
erano di un bambino di tre anni e mezzo
chi sa di che colore erano gli occhi
bruciati nei forni
ma il suo pianto lo possiamo immaginare
si sa come piangono i bambini
anche i suoi piedini li possiamo immaginare
scarpa numero ventiquattro
per l’ eternità
perché i piedini dei bambini morti non crescono.
C’è un paio di scarpette rosse
a Buckenwald
quasi nuove
perché i piedini dei bambini morti
non consumano le suole.

In questa poesia, la scrittrice e partigiana Joyce Lussu ci racconta l’inenarrabile, ciò che più di ogni altra cosa la mente umana si rifiuta di accettare, perché contrario a ciò non soltanto alla morale umana, ma al naturale istinto di ogni specie animale, volto alla protezione dei più piccoli, perché forse nessun altro crimine, per quanto efferato, compiuto all’interno del lager può essere ritenuto un crimine contro l’umanità intera quanto questo: il sistematico sterminio delle nuove generazioni, migliaia di bambini portati al massacro perché troppo piccoli per lavorare, inutili bocche improduttive da sfamare.
Impressa ad imperitura memoria, per chi avesse visitato il campo di sterminio di Auschwitz, l’enorme pila di piccole scarpette, appartenenti a piedini ancora più piccoli. Piedini di bambini innocenti che troppo presto, per la barbarie dei grandi, hanno smesso di correre e giocare.

La farfalla, Pavel Friedman

L’ultima, proprio l’ultima,
di un giallo così intenso, così
assolutamente giallo,
come una lacrima di sole quando cade
sopra una roccia bianca
così gialla, così gialla!

L’ultima
volava in alto leggera,
aleggiava sicura
per baciare il suo ultimo mondo.
Tra qualche giorno
sarà già la mia settima settimana
di ghetto: i miei mi hanno ritrovato qui
e qui mi chiamano i fiori di ruta
e il bianco candeliere del castagno
nel cortile.
Ma qui non ho visto nessuna farfalla.
Quella dell’altra volta fu l’ultima:
le farfalle non vivono nel ghetto.

Deportato nel campo di concentramento, nel lager di Auschwitz, dove morì, lo scrittore ceco Pavel Friedman ricorda il giallo intenso, splendente, allegro, dell’ultima farfalla che vide prima di essere internato nel ghetto ebraico di Praga. La farfalla, libera di volare, è qui simbolo di libertà, serenità, spensieratezza: quella libertà e quella serenità che nel ghetto manca, e che alle vittime dell’Olocausto è stata tolta progressivamente e ben prima della vita.

Auschwitz, Francesco Guccini

Son morto ch’ero bambino
son morto con altri cento
passato per il camino
e adesso sono nel vento.

Ad Auschwitz c’era la neve
il fumo saliva lento
nel freddo giorno d’inverno
e adesso sono nel vento.

Ad Auschwitz tante persone
ma un solo grande silenzio
che strano non ho imparato
a sorridere qui nel vento.

Io chiedo come può l’uomo
uccidere un suo fratello
eppure siamo a milioni
in polvere qui nel vento.

Ancora tuona il cannone
ancora non è contenta
di sangue la bestia umana
e ancora ci porta il vento.

Io chiedo quando sarà
che l’uomo potrà imparare
a vivere senza ammazzare
e il vento si poserà.

Poesie sulla Shoah in musica: Francesco Guccini racconta con versi brevi ed incisivi il dramma della Shoah, impersonando un anonimo bambino, ormai “polvere nel vento”, un innocente ucciso e “passato per il camino” come migliaia di altri suoi compagni dalla follia nazista, chiedendosi tristemente se mai “la bestia umana” placherà la sua sete di sangue e si poserà il vento pregno di morte e di dolore.

Altre poesie sulla Shoah

Olocausto di Barbara Sonek
Abbiamo suonato, abbiamo riso
eravamo amati.
Siamo stati strappati dalle braccia dei nostri
genitori e gettati nel fuoco.
Non eravamo altro che bambini.
Abbiamo avuto un futuro. Saremmo diventati avvocati, rabbini, mogli, insegnanti, madri. Avevamo dei sogni, quindi non avevamo speranze. Siamo stati portati via nel cuore della notte come bestiame in macchina, senza aria per respirare soffocando, piangendo, morendo di fame, morendo. Separato dal mondo per non esserci più. Dalle ceneri, ascolta il nostro appello. Questa atrocità per l’umanità non può ripetersi. Ricordati di noi, perché eravamo i bambini i cui sogni e vite furono rubati.

Auschwitz di Salvatore Quasimodo

Laggiù, ad Auschwitz, lontano dalla Vistola,
amore, lungo la pianura nordica,
in un campo di morte: fredda, funebre,
la pioggia sulla ruggine dei pali
e i grovigli di ferro dei recinti:
e non albero o uccelli nell’aria grigia
o su dal nostro pensiero, ma inerzia
e dolore che la memoria lascia
al suo silenzio senza ironia o ira.
Da quell’inferno aperto da una scritta
bianca: ” Il lavoro vi renderà liberi “
uscì continuo il fumo
di migliaia di donne spinte fuori
all’alba dai canili contro il muro
del tiro a segno o soffocate urlando
misericordia all’acqua con la bocca
di scheletro sotto le doccie a gas.
Le troverai tu, soldato, nella tua
storia in forme di fiumi, d’animali,
o sei tu pure cenere d’Auschwitz,
medaglia di silenzio?
Restano lunghe trecce chiuse in urne
di vetro ancora strette da amuleti
e ombre infinite di piccole scarpe
e di sciarpe d’ebrei: sono reliquie
d’un tempo di saggezza, di sapienza
dell’uomo che si fa misura d’armi,
sono i miti, le nostre metamorfosi.

Sulle distese dove amore e pianto
marcirono e pietà, sotto la pioggia,
laggiù, batteva un no dentro di noi,
un no alla morte, morta ad Auschwitz,
per non ripetere, da quella buca
di cenere, la morte.

Izet Sarajlić, Il proprietario delle scarpe n. 43

Quanto amore
un calzolaio d’anteguerra
alla periferia di Leopoli
ha impiegato lavorando questi sandali
perché calzandoli
un bambino
corresse nel suo maggio.

Ed ecco,
adesso questi sandali
sono esposti nel museo di Auschwitz.

Uno potrebbe quasi
sentirsi colpevole.
Un uomo
arrivato alle scarpe numero 43.

E il quale,
nel 1941
anche lui
correva in identici sandali da bimbo.

Fonte immagine: Pixabay

A proposito di Giorgia D'Alessandro

Laureata in Filologia Moderna alla Federico II, docente di Lettere e vera e propria lettrice compulsiva, coltivo da sempre una passione smodata per la parola scritta.

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