La lingua volgare secondo Dante Alighieri: De vulgari eloquentia

lingua volgare

Analizziamo uno dei trattati danteschi più di rilievo in ambito linguistico, e del perché la lingua volgare sia stata così importante nella storia occidentale.

La lingua volgare, secondo il poeta Dante Alighieri, è quella lingua che il bambino impara dalla balia: parliamo di una delle frasi più di rilievo del trattato scritto nel 1303, il De vulgari eloquentia. Tale opera è composta da quattro libri, di cui uno solo ci è arrivato completo, un secondo mai concluso, e altri due che non sono stati mai scritti. Lo spazio argomentativo fu dedicato interamente all’eloquenza della lingua volgare, cioè alla lingua progressivamente affermatasi nel Medioevo in tutta l’Europa occidentale, e, in questo caso in Italia, usata da giuristi commercianti, notai, uomini religiosi e poeti nella loro vita quotidiana.

Dante affrontò in maniera critica i problemi attorno alla lingua volgare, che si accingeva a svilupparsi nella letteratura; infatti, fu ribattezzata come una lingua “colta”. Dante decise di scrivere in latino il De vulgari eloquentia per due precisi motivi: per prevenire le accuse di incultura e soprattutto perché tale scritto era dedicato alla gente dotta.

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Ma andiamo a scoprire in maniera più dettagliata i vari argomenti intorno all’eloquenza della lingua volgare. Prima di tutto, l’autore affronta l’argomento sotto un punto di vista storico, affermando che il latino era ormai una lingua inadatta all’uso quotidiano. Inoltre, parla dell’originale esistenza di un’unica lingua volgare: secondo l’autore della Divina Commedia, dunque, la distruzione della torre di Babilonia avrebbe provocato la frammentazione di questa, provocando “sottogruppi” di lingua volgare, che variarono in base alla posizione geografica e alla popolazione che la utilizza (il concetto della mutazione della lingua è d’altronde alla base dell’intuizione dantesca). Nella sua teoria si distinguono, poi, tre volgari europei: il greco, il germano/slavo e l’occidentale, suddividendo quest’ultima nelle lingue d’oc, d’oil ed il si.

La lingua volgare che ricerca il poeta deve rispondere ai canoni del decoro, ossia essere illustre; cardinale, cioè deve fare da cardine rispetto alle altre lingue parlate; aulico, cioè utilizzabile dinanzi ad un sovrano; ed infine, curiale, ovvero adatta all’ambiente di corte. Ma nessuno dei volgari italiani esistenti, secondo Dante, risponde a queste virtù, salvo in casi di opere di autori.

Parlando del secondo libro del De vulgari eloquentia, esso fu interrotto bruscamente al XIV capitolo. Dimenticato per lunghi anni, fu poi riscoperto nel 1514, nel pieno di un dibattito sulla questione della lingua volgare; inoltre, furono palesati forti dubbi sulla reale paternità di Dante Alighieri, smentita in seguito a lunghi studi filologici compiuti a fine Ottocento.

Possiamo concludere dicendo che la grande potenza di questo trattato sta nella capacità dell’autore di aver anticipato il dibattito quattrocentesco e cinquecentesco sulla lingua volgare, definendo una precisa “storia” della vita di questa lingua, che nasce nella Provenza e arriva fino in Toscana.

Immagine di copertina: Pixabay

A proposito di Valeria Provvisier

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