La Convenzione di Montevideo del 1933 sancisce i requisiti ufficiali affinché uno stato possa esser riconosciuto in quanto soggetto giuridico ai sensi del diritto internazionale: un territorio circoscritto, una popolazione permanente ivi stanziata, un governo sovrano legittimo e la capacità di intrattenere relazioni pacifiche col resto degli stati della comunità internazionale. Attualmente, l’ONU riconosce ben 193 stati, eppure esistono numerose popolazioni a cui viene negato il diritto di vivere entro i confini di uno stato. Di seguito esaminiamo alcuni esempi di popoli senza stato.
Popoli senza stato: il caso curdo
Il popolo curdo rappresenta uno dei casi più emblematici di popoli senza stato. Si tratta di un gruppo etnico di origini antichissime che popola prevalentemente la regione mediorientale, a cavallo tra Iraq, Iran, Turchia, Armenia e Siria. Al termine della Grande Guerra e in seguito alla dissoluzione dell’impero ottomano, le potenze occidentali tentarono di riorganizzare la carta geopolitica del Medio Oriente seguendo i propri interessi particolaristici, siglando prima il trattato di Sèvres nel 1920 e poi il trattato di Losanna nel 1923, che di fatto proclama la nascita dell’odierna Turchia. Divenuto presidente della nascente Repubblica turca, Mustafa Kemal avviò sin da subito una politica di sistematica assimilazione ed eliminazione della minoranza curda, la quale un tempo era riconosciuta all’interno dell’impero ottomano. All’oppressione turca fecero seguito insurrezioni di città e villaggi curdi a favore dell’indipendenza del Kurdistan, brutalmente represse dai bombardamenti dell’aviazione inglese in soccorso della Turchia. I curdi si ritrovarono così senza una patria e costretti a vivere divisi ai confini di cinque diversi stati mediorientali.
Tuttavia, il vento di cambiamento arrivò ben presto. Nel secondo dopoguerra, in pieno clima di Guerra Fredda, nella parte nord- occidentale dell’Iraq viene fondato il Komala i Zhian i Kurdistan (cioè il comitato della vita del Kurdistan), un movimento clandestino fortemente nazionalista. L’organizzazione riuscì ad espandersi in Siria, Iraq, Libano e Turchia, assumendo un carattere transnazionale che consentì di connettere per la prima volta nella storia i vari gruppi curdi, superando sia le divisioni territoriali sia quelle ideologiche tra i vari movimenti. La sua natura clandestina e il carattere fortemente sovversivo delle sue operazioni impedivano al movimento di esser effettivamente riconosciuto come realtà politica. La situazione cambia quando fa il suo ingresso nel Komala Qazi Muhammad, intenzionato a promuovere l’ingresso del Kurdistan nel blocco sovietico. Qazi decise di fondare un vero e proprio partito politico; pertanto, nel 1945 nasce il Partito Democratico del Kurdistan (PDK). La creazione del PDK fu il primo passo verso l’autonomia: nel 1946 Qazi Muhammad, sotto l’egida sovietica, proclama a Mahabad la nascita della Repubblica curda, di cui divenne egli stesso presidente. La Repubblica era estremamente debole e dipendente dall’Armata Rossa sovietica che ne garantiva la sicurezza. Quando i sovietici decisero di lasciare l’Iraq, la già fragile entità curda capitolò. Soltanto nel 1978 si forma un nuovo partito curdo, il Partito dei Lavoratori del Kurdistan, un’organizzazione paramilitare il cui scopo resta la fondazione di uno stato indipendente in cui riunire il frammentato popolo curdo, ancora oggi uno dei popoli senza stato.
Con l’inizio della guerra tra Iran e Iraq nel 1980, la situazione prende una piega ancora più atroce: il dittatore iracheno da Saddam Hussein impiegò armi chimiche contro i cittadini di origine curda dell’Iraq, uccidendo circa 8.000 persone. Nell’arco degli otto anni della guerra Saddam portò avanti diverse campagne militari per sterminare i curdi iracheni: a una violenza di tale entità ha risposto una coalizione Anglo-americana che ha imposto nella regione del Kurdistan Iracheno una sorta di governo autonomo regionale, tuttavia mai riconosciuto dall’Iraq. Dopo la caduta del regime di Saddam Hussein la zona nord dell’Iraq è riuscita ad ottenere il riconoscimento di regione federale autonoma, con il nome di Kurdistan-Iraq o Regione del Kurdistan.
Ad oggi il presidente turco Erdogan non ha mai smesso di perseguitare il popolo curdo, dichiarando a più riprese la sua intenzione di eliminare definitivamente la minoranza. Non solo, Erdogan ritiene il Partito dei Lavoratori un’organizzazione terroristica a tutti gli effetti. Dunque, dopo secoli di oppressione, ancora oggi i curdi lottano in nome di uno stato mai nato. Senza alcun dubbio, il caso curdo rappresenta la pagina più crudele del libro dei popoli senza stato.
Rohingya, storia di un genocidio che non fa notizia
Tra i casi meno noti di popoli senza stato, figurano i Rohingya. Considerati una minaccia per l’integrità religiosa del Myanmar, i Rohingya subiscono sistematiche e gravissime violazioni dei diritti umani sin dalla seconda metà del secolo scorso. La popolazione in questione costituisce una minoranza etnica musulmana, concentrata prevalentemente nello stato del Rakhine a nord della Birmania e al confine con il Bangladesh, all’interno di un paese a maggioranza buddista. Dal 1948, anno d’indipendenza del Myanmar, i Rohingya hanno patito diverse azioni persecutorie, come il mancato conferimento della cittadinanza birmana, l’accesso negato all’istruzione secondaria e i limiti posti dal governo centrale alla libertà di movimento all’interno del Myanmar. Questi provvedimenti trovano legittimazione nella legge sulla cittadinanza del 1982, la quale esclude i Rohingya dalla lista delle 135 minoranze aventi diritto allo status di cittadini. La pulizia etnica assume pertanto connotazioni non soltanto politiche, sociali, religiose e linguistiche, ma perfino giuridiche. A partire dal 2012, nel paese scoppia un’ondata di violenze contro la minoranza musulmana, in risposta allo stupro e all’uccisione di una giovane donna buddista. L’apice del genocidio si riscontra soprattutto nel 2017, anno in cui moschee e case sono state distrutte, interi villaggi rasi al suolo e oltre 730.000 civili sono stati costretti a scappare in Bangladesh, stabilendosi nei fatiscenti campi profughi alla frontiera. Attualmente la situazione è ben lungi dall’esser risolta, ragion per cui i Rohingya figurano a tutti gli effetti all’interno della lista dei popoli senza stato.
La Palestina e l’occupazione illecita dei suoi territori
Il caso palestinese non può non essere analizzato nell’ambito dell’analisi dei popoli senza stato. Per comprendere l’attuale dinamica tra Israele e Palestina, è imprescindibile ritracciare decenni di storia di un conflitto apparentemente irrisolvibile. Gli attuali confini mediorientali sono stati in larga misura definiti durante la Grande Guerra e il primo dopoguerra. Inghilterra e Francia schierano due abili politici, Mark Sykes e George Picot, per spartirsi i territori emersi dal tracollo dell’impero ottomano. L’accordo Sykes-Picot determinava infatti le rispettive sfere di influenza dei due stati europei: agli inglesi sarebbe spettata la zona meridionale, ossia Palestina, Giordania e Iraq, mentre ai francesi Libano e Siria. Il tramonto dell’impero ottomano ha segnato l’inizio di numerosi contrasti etnico-religiosi tra la moltitudine di gruppi etnici rimasti senza una patria: proprio negli anni nel primo dopoguerra avanzano il movimento sionista, intenzionato a costruire nel territorio palestinese uno stato ebraico indipendente, e i vari movimenti arabi, altrettanto decisi a rifondare il Medio Oriente nel tentativo di costruire un’unica potenza araba. L’insediamento sionista in Palestina fu appoggiato sin dal 1917 dal governo inglese. Non a caso, il ministro degli esteri britannico Arthur Balfour scrisse una lettera al principale rappresentante della comunità ebraica inglese, Lord Rothchild, passata alla storia come dichiarazione Balfour, nella quale offrì pieno sostegno ai sionisti. Successivamente, tra il 1924 e il 1928 più di 60.000 ebrei giungono in Palestina. Il nazionalismo arabo e il nazionalismo ebraico sono destinati a scontrarsi sin dall’inizio: gli arabi ritengono gli ebrei degli intrusi nella loro terra, arrivati in Palestina per colonizzarne i territori ed estirparne le ricchezze; gli ebrei, invece, si consideravano gli unici legittimi abitanti della Terra Santa. Terminata la Seconda Guerra mondiale, il governo inglese decide di non supportare più l’immigrazione degli ebrei in Palestina, temendo di non poter più esercitare la loro influenza sullo stato. Nell’aprile del 1947, in un contesto in cui la comunità internazionale era ancora scossa dagli orrori della Shoah e intenzionata a rimediare al genocidio ebraico, l’ONU nomina una commissione d’inchiesta internazionale da cui discende la redazione di un rapporto, il quale raccomandava la creazione di uno stato ebraico e uno stato arabo nei territori palestinesi, per conciliare le contrastanti pretese delle due fazioni. I sionisti iniziano così a perpetrare numerose azioni di terrore contro gli arabi, allo scopo di ottenere lo sgombero dei villaggi. Un esempio di inaudita violenza è il massacro avvenuto nel piccolo villaggio arabo di Deir Yassin nel marzo del 1948. Il 1948 è un vero e proprio spartiacque nella storia dei conflitti israelo-palestinesi: nasce lo stato di Israele e inizia la prima di quattro guerre arabo-israeliane, in cui Israele riesce quasi sempre ad avere la meglio vista la superiorità militare, tecnologica, economica e finanziaria rispetto alla fazione avversaria (ricordiamo che gli Stati Uniti sono stati determinanti nel potenziamento di Israele visti gli ingenti finanziamenti predisposti nel corso degli anni). Nemmeno la diplomazia ha saputo fornire una soluzione adeguata per questo dramma senza fine. Gli accordi di Camp David (1978) e gli accordi di Oslo (1993) si sono rivelati estremamente inefficaci nel garantire uno stato al popolo palestinese, che da decenni ormai subisce abusi di ogni tipo nel silenzio generale della comunità internazionale ed è costretto al continuo esodo dalla propria patria, illegittimamente occupata da uno stato che fa dei soprusi la propria arma vincente.
In conclusione, la questione dei popoli senza stato rappresenta ancora oggi un tema molto delicato e spesso trascurato dalla comunità internazionale; non bisogna sottovalutarne la carica esplosiva, visto che nella maggior parte dei casi la rabbia e la disperazione di intere popolazioni cui viene negata una patria origina conflitti lungi e devastanti.
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