I concetti di solidarietà e sfruttamento sono stati al centro della riflessione etica fin dall’antichità. Un’analisi comparata tra il commediografo greco Menandro e il filosofo stoico romano Seneca offre prospettive differenti ma complementari. Attraverso il Misantropo (Dyskolos) e le Epistulae ad Lucilium, emerge una visione che passa dalla solidarietà pratica e sociale alla condanna filosofica dello sfruttamento umano.
Menandro, attivo nel IV-III secolo a.C., rifletteva nelle sue opere il cosmopolitismo dell’età ellenistica, portando in scena temi universali come l’amicizia e i conflitti familiari. A differenza della commedia antica di Aristofane, incentrata sulla difesa della polis, in Menandro il destino politico della Grecia perde importanza. L’attenzione si sposta sulla vita quotidiana degli uomini, sulla loro etica personale e sui loro rapporti interpersonali.
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La solidarietà come cura dell’egoismo in Menandro
Nel Misantropo, la riflessione sulla solidarietà è incarnata dal personaggio di Cnemone, un vecchio contadino che vive isolato e in ostilità con il mondo. La sua convinzione è quella di essere autosufficiente e di non avere bisogno di nessuno. La trama, però, dimostra l’insostenibilità di questa posizione. Quando Cnemone cade in un pozzo, viene salvato proprio da quelle persone che disprezzava, in particolare dal figliastro Gorgia. Questo evento lo costringe a rivedere le sue convinzioni: «Forse sbagliai una sola cosa; credevo di essere io stesso qualcuno autosufficiente e di non aver bisogno di nessuno in futuro». Cnemone comprende che la philanthropìa, l’amore per il prossimo, è una necessità per l’esistenza. La solidarietà in Menandro non è un astratto principio filosofico, ma una soluzione pratica ai drammi quotidiani, una “social catena” che sana le fratture umane e premia la virtù contro la meschinità. Lo sfruttamento non è un tema centrale: gli schiavi sono presenti, ma fungono da contorno. Il vero male per Menandro è l’egoismo che porta all’isolamento.
La condanna dello sfruttamento e la vera libertà in Seneca
Se in Menandro il tema è latente, nell’Epistola 47 delle Epistulae ad Lucilium, Seneca affronta direttamente il tema dello sfruttamento condannando il trattamento disumano riservato agli schiavi. Con parole durissime, descrive la loro condizione: «Tutta la notte restano digiuni e muti». Per il filosofo, la schiavitù è un prodotto del capriccio della sorte e non esiste alcuna differenza ontologica tra un padrone e uno schiavo: entrambi respirano la stessa aria e sono ugualmente mortali. Trattare un altro essere umano come un oggetto è una profonda mancanza di morale e rispetto. La riflessione di Seneca, però, si spinge oltre la critica sociale. Coerentemente con la dottrina dello stoicismo, egli interiorizza il concetto di schiavitù: si può essere schiavi delle proprie passioni, della paura o della folla pur essendo legalmente liberi. La vera libertà, quindi, non è una condizione sociale, ma una conquista interiore. Si ottiene attraverso la ratio, la capacità di distinguere il bene dal male e di non farsi dominare dagli impulsi, preservando la propria autonomia spirituale.
Menandro e Seneca a confronto
| Autore e opera di riferimento | Analisi dei concetti |
|---|---|
| Menandro (Il Misantropo) |
Solidarietà (philanthropìa): è una necessità pratica e sociale per superare le difficoltà della vita. Nasce dall’esperienza e corregge l’errore dell’autosufficienza egoistica. Sfruttamento: non è un tema centrale. La critica è rivolta all’isolamento e all’egoismo, non alla struttura sociale della schiavitù. |
| Seneca (Epistulae ad Lucilium, 47) |
Solidarietà (humanitas): è un dovere morale universale basato sul riconoscimento della comune umanità di tutti gli individui, inclusi gli schiavi. Sfruttamento: è condannato esplicitamente come moralmente inaccettabile. Viene analizzata sia la schiavitù fisica (sociale) sia quella interiore (delle passioni). |
Due stili letterari per due visioni del mondo
Le differenze concettuali si riflettono nello stile. Menandro adotta un linguaggio medio, elegante ma realistico, adatto a rappresentare la classe media ateniese e a far sì che il pubblico si identifichi con personaggi credibili. Il suo obiettivo è suscitare riflessione e conforto attraverso vicende verosimili con un esito positivo. Al contrario, lo stile di Seneca è asimmetrico e incisivo (inconcinnitas), pensato per essere memorabile e scuotere la coscienza del lettore. La sua prosa, ricca di sentenze brevi (brevitas), metafore e antitesi, come nella celebre esortazione «Vindica te tibi» (“Rivendica te a te stesso”), mira a fornire strumenti per la conquista della libertà interiore. In conclusione, Menandro propone una solidarietà che nasce dal bisogno reciproco nella comunità, mentre Seneca fonda la sua critica allo sfruttamento su un principio universale di dignità umana, indicando nella filosofia la via per la vera liberazione.
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Articolo aggiornato il: 21/09/2025

