Shūkyō: l’evoluzione del concetto di religione nel periodo Meiji

Shūkyō: l'evoluzione del concetto di religione nel periodo Meiji

Che significa il termine “shūkyō”?

Negli anni ’50 dell’Ottocento, in occasione dell’incontro con l’Occidente, i giapponesi scoprirono la parola religion e si aprì un dilemma: come rendere il suo significato in giapponese? Dobbiamo aspettare gli inizi del periodo Meiji (1868-1911) quando inizia a diffondersi il termine “shūkyō” (宗教), designato a ricomprendere Buddhismo, Cristianesimo e Shintoismo. Esso diventa la traduzione ufficiale di “religione”, individuando una categoria, dapprima concettuale e in seguito linguistica, autonoma. Pertanto, non si deve cadere nella credenza che il concetto di religione sia univocamente associato alla fede, alla spiritualità. Esistevano rituali, liturgie, cerimonie, ma erano visti come sistemi indipendenti.

Perché è tanto determinante l’incontro con l’Occidente? Dopo più di due secoli e mezzo di “quasi totale chiusura”, quando il Commodoro Perry salpa lungo le coste del Giappone (1853), esige l’apertura del Paese. Una delle questioni più importanti, nell’opera di negoziazione col Giappone, fu la libertà di credo religioso come garanzia costituzionale e il diritto di praticare il Cristianesimo, cosa che sin dagli anni ’30 del 1600 (con la rivolta di Shimabara e le sue disastrose conseguenze), era stato non solo oggetto di persecuzioni, ma era anche percepito come eresia. Questo processo di adattamento al modello di Stato-Nazione di stampo occidentale, che rifletteva un chiaro rapporto egemonico e si applicava alle più varie componenti culturali, si sostanziava non solo come uno sforzo linguistico, ma anche politico da parte dei diplomatici giapponesi coinvolti.

Tra shūkyō e Shintō

Qualcosa cambia nella mentalità del Giappone di epoca Meiji, in vista della chiara determinazione di affermarsi come “Stato forte”. La caduta dello shogunato Tokugawa è da considerarsi uno dei tanti momenti topici nella storia giapponese ed ebbe come risultato il conseguente accentramento intorno alla figura dell’Imperatore, il quale era stato sempre presente ma il cui potere politico, nella sostanza, era divenuto nullo e rimasto tale per tanti secoli. A tale fenomeno seguì la rinascita dello Shintō, il sistema di credenze e pratiche delle divinità Kami (神) legate alle storie dei miti di fondazione, che, in questo caso, si poteva meglio definire “Shintō di Stato”. Ciò si tradusse in una forma di venerazione nella figura dell’Imperatore, riallacciandosi all’antichissima idea di discendenza divina da Amaterasu-ō-mi-kami  (天照大御神). L’Imperatore, in quanto figura universale, ha il particolare compito di fungere da collante per una popolazione che usciva da decenni di guerre e povertà. Per il Giappone, il carattere unificante si associa a quello divino e lo legittima. 

Da questo semplificato assetto, si comprende bene che lo Shintō da una parte doveva contenere elementi indubbiamente religiosi, ma era anche associato a dinamiche di coesione sociale, simbolo del ritrovato orgoglio nazionale. In altre parole, la questione si fa più politica che spirituale. Esso rimane associato a qualcosa di autoctono, indigeno e secolare, qualcosa di realmente giapponese, cosa che invece non può dirsi del Buddhismo, nato in India, nonostante i tanti secoli di sincretismo.

Le due anime religiose del Giappone si scindono: tutto ciò che non è Shintō, rientra nella definizione di shūkyō. Tuttavia, la differenziazione linguistica non rimane un mero fatto formale. Si viene a formare una forte dicotomia tra il pubblico, il politico, e il privato rappresentato dallo shūkyō,  relegato alla sfera intima dell’individuo. Lì e solo lì vige la libertà, garantita dalla costituzione Meiji, di credere in ciò che si vuole. Pare chiaro che ciò lede l’autosufficienza del concetto di libertà sostanziale e la moralità diviene l’espressione collettiva e pubblica di una nozione sancita dal Governo. 

Fonte immagine: Wikipedia 

A proposito di Diana Natalie Nicole

Studentessa di Letterature Comparate, sostengo la continuità tra filosofia e letteratura, con qualche benigna interferenza di linguistica, arte e cultura.

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