Sonetti di Shakespeare: 3 da conoscere

sonetti di Shakespeare

Quali sono i sonetti di Shakespeare da dover assolutamente conoscere?

William Shakespeare è stato il più grande scrittore di lingua inglese della storia, tanto da ricevere l’appellativo di Bardo di Avon, in quanto nato a Stratford-upon-Avon, e le sue opere teatrali sono state inscenate più spesso rispetto a quelle di qualsiasi altro autore. Maggior esponente del teatro elisabettiano, la sua verve linguistica lo ha portato alla creazione di espressioni idiomatiche che sono divenuti parte della lingua inglese come to be in a pickle (letteralmente, essere in un cetriolo sottaceto, che vuol dire trovarsi in una situazione difficile) oppure wild-goose chase (letteralmente, caccia alle anatre selvatiche, che si usa per intendere un obiettivo inutile che non può portare a nulla). Considerato il più grande drammaturgo della cultura occidentale, è stato anche un prolifico poeta e sonettista e, in questo articolo, scopriremo tre sonetti di Shakespeare da conoscere. 

Cos’è un sonetto inglese? 

Il sonetto è un componimento poetico tipicamente italiano, composto da quattordici versi endecasillabi in due quartine e due terzine. Fra gli autori italiani che lo hanno magistralmente utilizzato possiamo ricordare Petrarca e Dante. I sonetti di Shakespeare, però, hanno una struttura metrica diversa, in quanto questi sono sonetti inglesi o elisabettiani, caratterizzati da tre quartine ed un distico finale

1. Sonnet 116 (Fair Youth Sonnets) 

«Let me not to the marriage of true minds 
Admit impediments. Love is not love 
Which alters when it alteration finds, 
Or bends with the remover to remove: 

O, no! it is an ever-fixed mark, 
That looks on tempests and is never shaken; 
It is the star to every wandering bark, 
Whose worth’s unknown, although his height be taken. 

 
Love’s not Time’s fool, though rosy lips and cheeks 
Within his bending sickle’s compass come; 
Love alters not with his brief hours and weeks, 
But bears it out even to the edge of doom. 

 
If this be error and upon me proved, 
I never writ, nor no man ever loved» 

Il centosedicesimo è uno dei sonetti di Shakespeare in cui si parla di amore. In questi versi, infatti, possiamo vedere come l’autore si riferisca all’amore vero come ad un qualcosa di stabile, che non può cambiare quando incontra delle difficoltà e non è soggetto allo scorrere del tempo, né allo sfiorire di bellezza e gioventù. L’amore è qui identificato come un ever-fixed mark, un segno fisso, come la Stella Polare per i marinai, che li guida nelle tempeste. Nel distico finale, l’autore ribadisce la propria posizione, affermando che egli abbia ragione nella sua tesi, altrimenti nessun uomo ha mai amato. Questo sonetto è stato anche incluso nell’adattamento cinematografico del 1995 di Ragione e Sentimento di Jane Austen, nella scena in cui Mr. Willoughby fa visita a Marianne, con la caviglia gonfia, a seguito della caduta che li ha fatti incontrare. 

2. Sonnet 130 (Dark Lady Sonnets) 

«My mistress’ eyes are nothing like the sun; 
Coral is far more red than her lips’ red: 
If snow be white, why then her breasts are dun; 
If hairs be wires, black wires grow on her head. 

 
I have seen roses damask’d, red and white, 
But no such roses see I in her cheeks; 
And in some perfumes is there more delight 
Than in the breath that from my mistress reeks. 

 
I love to hear her speak, yet well I know 
That music hath a far more pleasing sound: 
I grant I never saw a goddess go, 
My mistress, when she walks, treads on the ground: 

 
And yet, by heaven, I think my love as rare 
As any she belied with false compare.» 

Il centotrentesimo è uno dei sonetti di Shakespeare più famosi e studiati, poiché questo rappresenta un’aperta critica allo stile letterario del Dolce Stil Novo e della letteratura cortese in generale. In questo sonetto, infatti, l’autore paragona la donna amata alle grandi bellezze della natura: paragona il sole ai suoi occhi, le sue labbra al corallo, le sue guance alle rose, proprio come farebbe un esponente dell’amore cortese ma la mistress del componimento non regge mai il confronto. Questo accade per una ragione molto semplice e spiegata nel distico finale: la donna di cui si parla è una donna reale e non è falsamente decantata, come invece accade nel Dolce Stil Novo. L’oggetto dell’amore del poeta è la donna stessa, con tutti i suoi limiti e i suoi difetti, e non una sua versione idealizzata e irreale. 

3. Sonnet 136 (Dark Lady Sonnets) 

«If thy soul check thee that I come so near, 
Swear to thy blind soul that I was thy “Will,” 
And will, thy soul knows, is admitted there; 
Thus far for love, my love-suit, sweet, fulfil. 

 
“Will” will fulfil the treasure of thy love, 
Ay, fill it full with wills, and my will one. 
In things of great receipt with ease we prove 
Among a number one is reckon’d none: 

 
Then in the number let me pass untold, 
Though in thy store’s account I one must be; 
For nothing hold me, so it please thee hold 
That nothing me, a something sweet to thee: 

 
Make but my name thy love, and love that still, 
And then thou lov’st me, for my name is “Will.”» 

Il centotrentaseiesimo è uno dei sonetti di Shakespeare più apertamente sessuali ma anche ironici, poiché si gioca molto sull’allitterazione, sull’anafora e sui diversi significati della parola will che vuol dire desiderio ed è anche un diminutivo di William. In questo componimento, l’autore esprime la sua attrazione e il proprio desiderio verso la Dark Lady, tentando di convincerla ad andare a letto con lui e a prenderlo come amante. Di particolare interesse, qui, è anche la parola nothing. Il suo significato è niente ma in epoca elisabettiana la medesima parola era uno slang per indicare la vagina, rendendo questo componimento uno dei più audaci fra i 154 sonetti dell’autore. 

I sonetti di Shakespeare sono un tesoro letterario e poetico che ha plasmato la produzione letteraria occidentale e rappresentano ancora oggi, dopo più di 400 anni, una fonte inesauribile di riflessioni e meraviglia.  

Fonte Immagine in Evidenza: Freepik 

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