Le verdi colline dell’Africa al Bolivar | Recensione

Le verdi colline dell'Africa al Bolivar | Recensione

Le verdi colline dell’Africa o Insulti al pubblico o Una cosa con Sabina Guzzanti e Giorgio Tirabassi

Le verdi colline dell’Africa o Una cosa, con Sabina Guzzanti e Giorgio Tirabassi approda al Teatro Bolivar il 9 Febbraio. La locandina dello spettacolo ha lo scopo di depistare il pubblico, di disorientarlo. La messinscena teatrale, a cui assistiamo venerdì sera al Bolivar, è assolutamente una trovata inedita, inattesa.

Come si apre il sipario de Le verdi colline dell’Africa, il pubblico ha la sensazione di essere vittima di una truffa. Si sente una cavia per esperimenti. Non capisce niente di cosa sta accadendo, ma pian piano si lascia trasportare, si affida, si ammorbidisce e gode della rappresentazione, alla quale ha il privilegio, o meglio il dovere, di partecipare attivamente.

Ne Le verdi colline dell’Africa, gli spettatori, entrati in sala con le facce mummificate, e gli sguardi seriosi, – di chi sta per assistere a una pièce tradizionalmente intesa, con una trama convincente e dei personaggi ben caratterizzati – escono di lì con una nuova energia vitale, restituiti del loro diritto a presentificare, a esserci, a farsi un’opinione.

Le verdi colline dell’Africa somiglia vagamente a un gioco di finzione, ma anche alla realtà, all’autenticità, e alla messa a nudo della persona-attore. Com’è stato possibile?

Sabina Guzzanti dimostra di saper innanzitutto scrivere bene, perché osserva acutamente il presente, e se ne beffa anche se lo teme, e l’ironia cinica e mordace è lo strumento più audace con il quale può affrontarlo.

L’apocalisse si trasforma in un equivoco artistico, che ha il sapore di verità e il retrogusto amaro di un imbroglio, di una presa in giro. Non bisogna prendersela però, e infatti l’autrice avverte, sin da subito, che dobbiamo essere predisposti ad accogliere l’attacco, perché lo spettacolo al quale, in realtà, stiamo assistendo, non è Le verdi colline dell’Africa, ma Insulti al pubblico di Peter Handke, e «fa tutto parte del testo».

Prima ancora di veder comparire sul palcoscenico i due attori, possiamo udire le loro voci. Sabina Guzzanti e Giorgio Tirabassi, dietro le quinte, sparlano della platea: «i giovani sono deficienti, cosa vuoi che capiscano, le anziane signore vanno a teatro solo per sfoggiare le pellicce, e poi si tratta dei napoletani, sicuramente dormiranno».

Lo spettegolare a microfoni aperti è un espediente affinché, quando il sipario si aprirà, il titolo Le verdi colline dell’Africa potrà già essere stato resettato nella mente degli spettatori, come non fosse mai esistito.

L’ambiguità rimane, serve per tenere in piedi la struttura dell’esibizione, che pare non poggiare su basi salde, – se si usa il parametro di giudizio da ricondurre all’etichetta del politically correct – ma, in verità, è studiata nel dettaglio, intelligentemente e sottilmente costruita per lanciare una vera provocazione, senza peli sulla lingua.

Ne Le verdi colline dell’Africa, Sabina Guzzanti e Giorgio Tirabassi si fanno da spalla a vicenda, come due colleghi attori, ma anche come due amici, che si sono cacciati in un pasticcio, e mettono insieme le forze – o la fantasia e la creatività – per ripararlo.

Giorgio Tirabassi dei due è il più timoroso, ma, con le sue espressioni del viso fortemente personalizzate, spiazza. Chi ha familiarità con le sue doti attoriali ed è abituato a vederlo sullo schermo, a teatro ne è ancora più rapito, per la verità che riesce a comunicare. Sabina Guzzanti è, invece, un’esplosione di vitalità e passione, un misto di intuizione e arte mimica.

La sua performance si colloca a metà tra la gag e momenti altissimi di decostruzione dei principi stessi, che separano l’intrattenimento dal vero teatro popolare, nato con lo scopo di nutrire l’anima e accendere lo spirito critico, e non di offrire ai cittadini un’occasione, come tante, per «staccare la spina».

Le verdi colline dell’Africa – spiega Giorgio Tirabassi – è una drammaturgia in movimento, che cambia a seconda del partito che c’è al governo. Può essere la narrazione di una convinta e gratuita discriminazione del cosiddetto diverso, dello straniero, ma può pure diventare un racconto sulla parità di genere e sull’adozione, a seconda dei tempi che corrono, cavalcando l’onda delle tematiche seguite con più hype, e delle idee vuote, sostenute con sempre maggiore convinzione.

Così Le verdi colline dell’Africa ha il potere di una matrioska: toglie man mano degli strati, si smaschera per arrivare al nocciolo del problema, fino al punto di toccarlo con mano, e scottarsi, e infuocare, infervorarsi, e far infuriare la platea, farla pure fischiare. Che si tratti o meno di un gioco non è importante, perché «il gioco è una cosa seria».

Fare teatro, fare cinema, scrivere sono azioni che equivalgono a trovare delle modalità – come osservò François Truffaut – per «migliorare la vita, sistemarla a modo proprio, prolungare i giochi dell’infanzia». Ed ecco che Sabina Guzzanti e Giorgio Tirabassi riescono a trasformare il Bolivar in un parco giochi, eppure ad affrontare tematiche spaventosissime e attualissime, che riguardano la perdita delle coordinate intellettuali e culturali, da parte di un paese meraviglioso, pieno di carisma e originalità, ma alla deriva, dimentico di se stesso, al riposo su una verde collina.

Con Le verdi colline dell’Africa, ci sembra di aver assistito a una certa cosa che non sappiamo bene identificare, che è, forse, metateatrale, ma più assurda del teatro stesso. Quello che conta non è sapere, nel senso di conoscere, ma sapere, nel senso di sentire, di essere stati smossi.

Fonte immagine di copertina: Ufficio stampa

A proposito di Chiara Aloia

Chiara Aloia nasce a Formia nel 1999. Laureata in Lettere moderne presso l'università Federico II di Napoli, è attualmente studentessa di Filologia moderna. Si nutre di libri e poesia. I viaggi più interessanti li fa davanti al grande schermo.

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