Latife Tekin e il suo romanzo: Berci Kristin | Recensione

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Recensione del romanzo Berci Kristin di Latife Tekin

Lo stretto legame tra Letteratura e Storia è evidente nei libri di Latife Tekin. I suoi romanzi, pur essendo caratterizzati dall’elemento fantastico, raccontano il fenomeno della migrazione e il conseguente cambiamento sociale. In essi si può notare come la Storia del Paese si incroci e si leghi alla storia, o meglio alle storie, di singoli individui e di una collettività.

Nel caso di Latife Tekin, le storie di tanti emarginati si ricollegano agli avvenimenti che contraddistinsero la storia turca negli anni Sessanta e Settanta dello scorso secolo, in particolare il fenomeno della migrazione verso Istanbul, che porta con sé un cambiamento sociale.

Antecedente di questo fenomeno è quanto si verifica negli anni successivi alla Seconda Guerra Mondiale, quando si verificano dei cambiamenti storici: sono gli anni in cui la Turchia aderisce al Piano Marshall;  si assiste ad uno sviluppo industriale che porta alla meccanizzazione delle attività agricole, per le quali si registra un aumento della produzione, ma l’aspetto negativo finisce per essere quello di un “parallelo” aumento della disoccupazione nelle campagne dell’Anatolia, da dove si muovono masse di contadini, in direzione delle grandi città (in particolare Istanbul), per trovare lavoro, spinti dal miraggio di una vita migliore.

In realtà, nelle grandi città i contadini si troveranno ad affrontare una realtà durissima, anche perché la richiesta di manodopera per le industrie, pur essendo di una certa portata, non consentirà di assumere tutte le persone giunte dalle campagne, che si ritroveranno a vivere di espedienti, nella maggior parte dei casi. In mancanza di possibilità di occupazione nelle industrie, uno dei lavori più ambiti risulterà essere quello di portinaio, anche perché esso garantiva la possibilità di avere un alloggio.

Conseguenza pressoché immediata di tale situazione sarà la nascita di insediamenti di fortuna, che sorgeranno alla periferia delle grandi città, i cosiddetti gecekondu (letteralmente: “edificato in una notte”), costruzioni illegali tirate su con materiali di riciclo e prive di qualsiasi tipo di servizio. Nonostante le frequenti sentenze di sgombero (già dagli anni Sessanta le autorità avevano cominciato a combatterne lo sviluppo, ma via via c’era stato anche il tentativo di regolare tale fenomeno attraverso dei condoni), i gecekondu permettevano perlomeno di avere un alloggio e, nel 1976, con una legge, lo Stato turco ne vietò l’abbattimento: tutto questo, comunque, non evitò l’insorgenza di fenomeni di commercializzazione e le infiltrazioni, purtroppo, della criminalità organizzata.

In letteratura, a partire dagli anni Settanta, molti scrittori hanno rivolto l’attenzione verso il tema della migrazione urbana e dei gecekondu, elaborando una sorta di estetica artificiale ed idealizzata. È Latife Tekin la scrittrice che riesce a dare voce alla gente dei gecekondu, adottando forme e lingua particolari; ciò fa sì che la Tekin sia la più importante ed originale fra gli scrittori che parlano di marginalità, poiché nella sua narrazione si nota un punto di vista interno: quanto racconta è qualcosa da lei effettivamente vissuto. Infatti, la scrittrice proviene da una famiglia originaria dell’Anatolia centrale, che vive direttamente l’esperienza della migrazione verso la grande città, Istanbul. Un’esperienza, questa, contrassegnata da enorme indigenza ed emarginazione, a cui si riesce a sopravvivere grazie al sapere primordiale ed ancestrale, non a caso nelle mani delle donne.

Per Latife Tekin, una via d’uscita all’emarginazione è rappresentata anche dalla militanza politica, che comunque genera una crisi identitaria, una crisi data dalla consapevolezza del fatto che i movimenti di sinistra (a cui la Tekin aderisce) non hanno mai dato voce agli emarginati: per l’autrice questo finisce per essere un dramma, il dramma del sentirsi sradicati e del fallimento, pure dal punto di vista politico. Il superamento di tale fallimento può avvenire solo grazie alla scrittura, associata ad una riscoperta della lingua. Infatti, i romanzi di Latife Tekin nascono come riscatto sociale e politico; la scrittrice si definisce come una traduttrice che interpreta e vuole dare voce ai più emarginati e ai più diseredati, in quanto la “lingua dei poveri” è qualcosa che la Tekin ha perso e può ritrovare con la riscoperta delle sue radici, parlando direttamente con chi è emarginato ed ascoltando le loro storie.

Scrivere finisce anche per essere un modo per elaborare  il punto di vista dei poveri e per narrare la storia della Turchia, ma da una prospettiva differente, quella delle classi subalterne, a cui viene data voce servendosi pure dell’elemento fantastico, di quel “realismo magico” nato in America Latina, ma che ad una diversa latitudine permette di interpretare in maniera differente la realtà e, in taluni casi, di fuggire da essa ai fini della propria riscoperta e di quella delle proprie radici, che emergono con forza grazie alla magia delle fiabe che, in fondo, danno speranza in un universo come quello, nel romanzo di Latife Tekin,  delle colline dei rifiuti.

 Berci Kristin

In questo romanzo del 1983, Latife Tekin racconta della città di Istanbul, non comunque la città ritratta nel passato da vari autori, bensì una Istanbul in cui trovano posto le voci inascoltate di chi vive ai margini; è infatti la Istanbul delle baraccopoli ad essere protagonista, a costituire il “centro del mondo”, un mondo fatto di storie e voci, quelle di coloro che vivono al polo opposto di chi rappresenta i vincenti. Il romanzo descrive soprattutto il cambiamento e le trasformazioni sociali avvenute in seguito all’emigrazione interna, che videro come destinazione principale la città di Istanbul. 

Come evidenzia Saraçgil nell’introduzione al libro pubblicato in Italia prima nel 1988 e poi nel 1995, «siamo di fronte ad un originale tentativo di ricostruire la storia della massiccia emigrazione interna che, nel corso degli anni, ha rovesciato il rapporto abitativo città campagna in Turchi». È molto interessante vedere come la scrittrice, per far sentire queste voci, ricorra alla tradizione orale, evocando i racconti dell’infanzia che la Tekin eredita dalla madre; tali racconti finiscono per essere un mezzo, uno strumento al fine di soddisfare un bisogno, che è quello di ritrovare le proprie radici, che, nel momento in cui ci si ritrova nella realtà della grande città, da un lato vengono accettate, dall’altro rifiutate. Da notare che queste voci sono quelle della solidarietà che si instaura tra gli abitanti del gecekondu di Montefiore e che vanno a “unirsi” finendo per essere un coro, quindi sono le voci di una collettività, per cui si può definire il romanzo della Tekin come un libro “corale”.

A questi motivi — le voci, la tradizione orale come recupero delle proprie radici — dinanzi alla durezza della realtà e alla lotta continua per la sopravvivenza, se ne aggiunge un altro, che spesso ha fatto accostare la narrazione di Latife Tekin a quella di García Márquez, a quel realismo magico che si esprime attraverso l’elemento fantastico: esso permette di superare in qualche modo le enormi difficoltà derivanti dalla vita nelle baraccopoli e l’altrettanto enorme solitudine, di fronte alla quale a dare sostegno è proprio la cultura popolare, il mondo “magico” delle credenze popolari, custodite dalle donne. In questo senso, la narrazione di Berci Kristin esprime un racconto “al femminile”, poiché sono le donne ad essere in possesso di un sapere millenario; la narrazione è tutta al femminile anche perché vengono ad emergere le voci proprio delle donne, inascoltate nella società patriarcale, relegate al ruolo di mogli e madri.

Nel momento in cui le donne cominciano ad accettare quanto “offerto” dalla modernizzazione e dalla laicizzazione evidenti nella realtà urbana, dovranno fare i conti con la società patriarcale che le costringe al silenzio e alla solitudine; in qualche modo, comunque, le donne riescono ad emanciparsi e ad avere un altro ruolo, quello della lavoratrice, che permette loro di raggiungere un certo livello di autonomia e una qualche libertà, anche se il prezzo da pagare è alto. Tradizione e modernità finiranno per confluire, nella realtà delle baraccopoli, ad un nuovo tipo di cultura, espressa dall’arabesk, ma purtroppo l’accettazione della modernità, oltre alla solitudine, porterà alla malinconia e aprirà diverse ferite: «gli scarichi delle fabbriche trasformano il colore della terra; il soffio del vento tace, mentre i bisbigli si trasformano in grida» (Saraçgil, 1995).

Fonte immagine per l’articolo su Berci Kristin di Latife Tekin: Facebook

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